romanzo breve
“Per favore, bussate prima di entrare.”
J. Hillman, Il codice dell’anima
La prima volta che vidi il mio accadde di lunedì. Il mese era marzo.
L’anno? L’anno non è importante. Lo è invece ricordare che quella mattina era un lunedì come gli altri. La domenica l’avevo passata con papà e il giorno successivo, come capitava da circa due anni, cioè da quando papà se n’era andato di casa, avevo la febbre.
Il grosso guaio, da quando quella cosa ha fatto irruzione nella mia vita, è sempre stata la sua crescita: non è mai stato un processo naturale. Ma quella mattina, tremendamente impressionata, non provai più a darmi alcuna risposta: lo lasciai parlare. Arrivò mamma: lo nascosi. E lui andò
avanti a crescere.
Un sogno! Un nome! Un bambino non nato! Quella notte, più confusa
di prima, aspettai che mamma si addormentasse. Poi tornai nel mio letto.
E, di nuovo sotto le coperte, daccapo cominciai a rimuginare. Avrei voluto almeno trovare un nome, ma non uno qualsiasi. Oltre a essere bello e senza un’incrinatura, doveva avere soprattutto un significato.
Che peccato! I crochi bianchi e viola nel prato davanti a casa erano sfioriti e così il gelsomino, a differenza dei tappeti di margherite che inargentavano i prati più lontani. Perciò passai oltre. Arrancai lungo il sentiero di sassi e mi sedetti sui due scalini di pietra sotto l’albero di nocciolo, accanto alla casa dei nonni.
Il modo in cui immaginiamo la nostra vita non ha molto senso, se non per noi. Figuriamoci se hai solo dodici anni. Lo stesso può valere per questa storia. Quante volte mi sono chiesta in solitudine: perché, Minna?
Perché scriverla?
racconto
Era giorno fatto e i bambini, ormai svegli, correvano schiacciando il ghiaietto scricchiolante sotto i piedi nudi. La felicità, la loro felicità, prendeva forma nel giardino ai loro occhi infinito, che si apriva sotto la stanza dove io stavo dipingendo.
Durante il giorno le urla squillanti rimbalzavano acute fino a me e io ci avevo fatto l’abitudine. Anche il loro richiamo pigolante di continua attenzione mi faceva compagnia, sostituendosi all’agognato desiderio di presunto silenzio sfamato solo durante la notte.
«Dove sei?»
«Sono qui.Non mi vedi?»
«Qui dove?»
«Quiiiiii»
«Come fai dipingere con questo buio, mamma?». I suoi gomiti si erano appoggiati attenti sul bordo del foglio.
«C’è troppo buio».
Tracciai un’altra linea cercando di riempire degli spazi vuoti. Poi alzai la testa, dubbiosa: è una strada complessa quella della pittura. Infilai il pennello nel colore.
Volevo ancora nascondere ciò che mi stava più a cuore o volevo che fosse nitido, tremendamente?
“A maggior gloria della visione il pittore non deve dipingere quello che vede, ma quello che vedrà.”
Paul Valery
“Figli dell’aria. Rondoni a Campiglia Marittima” è il libro leporello di Eugenia Parisi, illustrato da Cristina Jacamar, edito Fiorina Edizioni. Attraverso 32 pagine dispiegate a fisarmonica, possiamo immergerci nella vita dei rondoni – gli uccelli che non si posano mai – e nel suggestivo borgo toscano che li ospita ogni tarda primavera. Il libro include la poesia "O andorinhão-negro" di Luís Quintais, tradotta per la prima volta in italiano. Un’opera tributo alla bellezza naturale, nonché un richiamo alla conservazione.
Non è il falco che strapiomba fulmineo dal vuoto.
Non è il barbaglio che invischia la lumaca femmina nella calura della verdura.
È questa ora di disagio in una ragnatela di nubi dove la mia identità si confonde,
poeta.
È tra l’intrico dei rami che cerco l’ombra del non ritorno,
quel qualcosa di strano:
il crepitio, il frullo, la porta dell’incanto,
il mistero di qualcosa di noto.
Stordisce come la meraviglia di ciò che non è ricordo.
Impronta, orma,
si rimpicciolisce come Cappuccetto Rosso,
come la nonna, il lupo e il cacciatore in un bosco di carta.
Ti incontrai un giorno
All’alba
Il becco adunco
Gli occhi fatti d’inchiostro
Le piume d’argento
Nero
Impettito su un alto palo di legno
La spiaggia assolata incorniciava il mare
Dietro di te
il Silenzio.
Ti vidi prima io,
Lo ricordo.
Il passo leggero?
La sabbia d’oro
E il Vento, complice del Mare,
mi avevano nascosto.
Tu impettito, immobile, scandagliavi le onde.
E io,
pazza,
in silenzio mi misi a contare le tue piume
Tutte -
Quelle nere
E quelle d’argento.
Ebbi tempo per stimare i Tuoi occhi foschi
Il tuo becco adunco
I tuoi artigli taglienti.
Tu?
Corvo,
Nero Nero
Col becco adunco
Le piume d’argento e gli occhi fatti di inchiostro
mi guardasti.
E io,
non ebbi paura,
mi azzardai di nuovo a sognare
le tue Ali immense.
Desiderai
Agguantarti le piume
Tutte -
Quelle nere e quelle fatte di argento.
Ma tu non me ne lasciasti il tempo.
Uccello Saggio,
Scappasti.
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